venerdì 27 maggio 2011

A forza di essere vento

Ho ascoltato le ultime battute di questo copione della vergogna.
E’ il copione recitato da Berlusconi e dai suoi amici durante questa campagna elettorale miseramente insensibile.
La zingaropoli, i musulmani, i diversi.

Assistiamo al potere che violenta la diversità imponendone fin dalla nascita il marchio sociale dell’appartenenza ad una comunità i cui confini sono la sopportazione ed il disprezzo del diverso, del nomade, di chi non ha voglia di omologarsi alle direttive conformistiche di questo mondo scolpito ad immagine e somiglianza dei Palazzi del potere.
Ne sanno qualcosa gli zingari; nomadi che da oltre venti secoli girano in solitudine senz’ armi, marchiati da mille pregiudizi, da mille Bolle, da vari editti di Papi e Re.

Accusati di ogni spregevole azione; portatori di peste, ladri, cannibali. Perseguitati, torturati, sterminati da quella cultura dell’odio che trovò in Hitler la perfetta incarnazione.
Nei Lager li si riconosceva dal triangolo marrone; marrone come le montagne che amano valicare nei cambi di stagione, estranei dal mondo etichettatore, fieri delle proprie tradizioni, cultori di una solitudine che rende liberi.
“Lo zingaro fa paura perché è il più radicale dei diversi, è il più straniero degli stranieri: non viene da nessun luogo, non è rintracciabile in una società dove l’anagrafe dà a ogni cittadino un numero civico che lo rende reperibile. Fa paura, ancora, perché è sconosciuto: della sua scrittura i più non sanno nulla. Così li si accusa di rubare i bambini, come si accusavano i comunisti di mangiarli e gli ebrei di usarli per i loro sacrifici.”
Proprio ieri è stato presentato il rapporto 2011 di Amnesty International che svela tratti oscuri del nostro paese, specie per quanto riguarda le forme di razzismo.

Si continua infatti a registrare l’aumento della cultura xenofoba e dell’istigazione all’odio nelle tribune politiche e pubbliche.
In Italia, si legge, i Rom hanno continuato a subire discriminazione nel godimento dei diritti all’istruzione, all’alloggio, all’assistenza sanitaria e all’ occupazione.
Sicuramente il Rapporto 2011 sarà pervenuto alla segreteria della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Sarà stato letto e rispedito al mittente, con ricevuta di ritorno, con allegato il biglietto: “Siete dei poveri comunisti!”



Fabrizio De Andrè - Khorakhanè

mercoledì 25 maggio 2011

FALCONE: IL PREZZO D'ESSERE EROI

"L'Italia è lo strano Paese in cui per essere credibili bisogna morire"

Il ricordo di Falcone, la sua faccia sui profili, le belle parole spese da tutti. Il 23 Maggio è un triste anniversario, ma sempre pieno di un benefico spirito di rinnovata speranza. La commemorazione di un grande sogno, il rimpianto per degli Eroi perduti. Eroi. Eroi contro la mafia. Eroi che, come nelle tragedie, vanno incontro al loro destino; alla macabra mutilazione, all'accecamento, al trapasso. Eroi che pagano il prezzo d'essere eroi. Eroi che, per essere eroi, devono lasciare le spoglie mortali.
Ma come faccio a scacciare quel dubbio? Il Dubbio subdolo che Falcone, come Borsellino, come altri ancora, abbiano dovuto pagare con la vita il prezzo d'essere eroi, pagato con il sangue l'ascesa sull'Olimpo. Avremmo comunque ricordato la spada d'Achille, che trafisse il petto di Ettore, anche senza l'insulsa freccia di Paride? Avremmo comunque riconosciuto il coraggio? Avremmo avuto la forza di celebrare un coraggioso vecchio, mezzo rimbambito per l'età?
È il dubbio osceno che in questa nostra Italia non sia quello che fai a stabilire il tuo valore. Piuttosto è lo schianto, l'esplosione, il fumo, le grida, il panico, il silenzio. Il dubbio che la gente sia disposta a sollevare il cappello solo di fronte al legno di una bara, ad una croce e ad un fiume di rimpianti. Il dubbio che sia una linea di tritolo a tracciare il confine tra il paladino senza macchia ed il comune pupazzo.
Noi vogliamo scacciare questo dubbio. Perché per sconfiggere la mafia, per trovare altri eroi, noi non possiamo aspettare altre Capaci. Perché per sconfiggere la mafia noi dobbiamo rimanere vivi; non possiamo farci saltare in aria, uno dopo l'altro. Perché a noi servono più vecchi combattenti, divenuti anziani, e meno Eroi tristi trafitti alle spalle, su un autostrada grigia, in una mattina senza più speranza.

domenica 22 maggio 2011

Ci viene da piangere....

Scendendo in facoltà, quasi tutte le mattine, passo accanto a Librino. Da quando hanno aperto l'Asse attrezzato, ci passo proprio in mezzo, la taglio con gli occhi. Palazzi e palazzi e sulla destra, ad un tratto, due piccole ciminiere di mattoni rossi, che sono la testimonianza di dio sa ormai cosa.
Ogni mattina passo in mezzo a Librino tra palazzi e palazzi e le ciminiere e se ci penso mi viene quasi da piangere. Perché Librino fa venire da piangere. Librino che doveva essere un gioiello, Librino che doveva essere città satellite di 70.000 abitanti. Inserita nel Piano Piccinato del '69; con le strade grandi e le rotonde e palazzi arredati ed i parchi ed il verde ed i garage. Dovevano metterci le scuole e le università e gli uffici e decogenstionare il centro. Librino doveva essere un gioiello. Hanno chiamato un architetto giapponese per confezionarlo. Si chiamava Kenzo Tange. Un genio.  Hanno speso una montagna di soldi. Librino la città satellite, la città nuova. Una perla.
E invece da Librino io ci passo tutte le mattine e se ci penso mi viene da piangere. Ammasso di silenzio e cemento, groviglio dissennato di strade e strade e degrado. Palazzi abbandonati, occupati abusivamente. A librino si va a prendere il fumo, al dieci, al sessantanove, al palazzo di cemento. Cemento. Questo è librino. Cemento e cemento e rumore di un sogno che si rompe e va in mille pezzi. Librino è la tristezza di una Sicilia che non si solleva e striscia e si sporca e ingoia fango. Librino è una distesa piena di lacrime che la mattina lavano il cielo, prima che gli aerei inizino a decollare; tutte le lacrime di una terra venduta e stuprata, una terra che sanguina e sanguina sotto il sole. Una terra che marcisce bisbigliando perché non ha più la forza neanche di parlare. Doveva essere un gioiello Librino; Catania doveva essere un gioiello e doveva esserlo anche la Sicilia. E invece sono solo storie di cemento venduto e di progetti lasciati a metà e di indifferenza e di corruzione. Sono madri dallo sguardo cisposo ed assonnato che si alzano la mattina e stendono i calzini su un filo moscio e arrugginito e non sanno di camminare sopra un fiore mai sbocciato. Sono semi che non crescono perché i semi non crescono dove non c'è il sole e dove piove sabbia e dove il vento è sempre foriero di tempesta.
La Sicilia siamo noi che ogni mattina attraversiamo Librino con la macchina e ci viene da piangere. E allora tiriamo un pugno contro il cruscotto. E ci mettiamo ad urlare, proprio lì, sulla quella strada dove non ci può sentire nessuno.

giovedì 19 maggio 2011

Il tempo

Tic, tac, tic, tac.

Suoni onomatopeici per descrivere il tempo che scorre, anche ora, mentre leggete queste righe. Tempo che non conosce difficoltà, non bada a rallentamenti, non ha come obiettivo alcun traguardo. È iniziato a scorrere all’alba dei tempi, si è istituzionalizzato con il logos umano, finirà di ritmare i nostri battiti con la fine stessa della nostra permanenza terrena.

È la testardaggine di misurare la velocità della nostra esistenza che rende l’uomo fragile; un secondo, un minuto, un’ora, una settimana, un mese, un anno; sentiamo la pesantezza del tempo trascorso, tra le lancette di un orologio digitale ed i gesti di normale quotidianità, di poca considerazione ma che cristallizzano, con la loro ripetitività, quel tempo che la natura ci ha scomputato dall’infinito.

Il tempo meteorologico; quello che ci fa benedire il cielo per uno sprazzo di sole in spiaggia; il tempo dipinto dal gelo invernale, passando attimi alla finestra a contare le gocce di pioggia; il tempo che vorremmo cambiasse di ora in ora, telecomandato tra neve, piogge, sole e nuvole.

Il tempo dell’amore, delle storie concluse e di quelle sbocciate, colorate, come in primavera.

Il tempo di chi vorrebbe un tempo più veloce per superare in fretta il dolore di una perdita; il tempo da fermare, fissare, stoppare insieme alle fotografie di straordinarie emozioni da innamoramento.

Il tempo della riscossa dopo tanti tentativi falliti, tra sogni infranti ed entusiasmi assopiti; la riscossa dei giovani e delle donne che sanno guardare negli occhi la realtà senza impaurirsene.

Il tempo da non farsi sfuggire, carpe diem! Quello che fa cogliere i frutti dall’albero stracolmo di tempi maturi.

Il tempo di chi ha tempo da perdere, evadendo i doveri, rincorrendo i piaceri; abbracciando la signorina Libertà, che tutti amano sedurre con leggerezza, senza mai contemplarne l’idea che è tempo di sposarla.

Il tempo di chi questo tempo vorrebbe cambiarlo con semplicità, cercando un sorriso in una magra caccia d’emozioni.

Il tempo ciclico di chi aspira ad una società più giusta, equa, solidale, umana.

Il tempo di chi non riesce più a sognare; di chi non ha più voce per urlare al mondo le proprie sofferenze, di chi non ha più occhi per guardare i propri figli, di chi non ha più orecchie per ascoltare i lamenti di una società lebbrosa.

Il tempo della vita, piccolo squarcio cosciente nel tempo infinito della storia; il pianto liberatorio di un bambino neonato che, tra gli sguardi felici ed ansiosi dei genitori, inizia il tempo del proprio corso esistenziale. Il tempo della fine di un bicchiere di vino dopo una bevuta indimenticabile, della conclusione di un film strappalacrime, della risata sguaiata di un amico.

Il tempo di chi guarda in faccia il proprio tempo; specchiandosi dopo una doccia ed interiorizzando come il corpo invecchi prima dell’anima; contando quelle rughe e quei capelli bianchi che ci allontanano dai tempi gloriosi ma che ci avvicinano allo scontro secolare tra onnipotenza ed umana debolezza.

Il tempo che non ci consente di sapere quanto resteremo quaggiù ma che ci permette ogni giorno di vivere nel modo migliore, con uno scopo, dando un senso alle nostre azioni terrene.

Il tempo per dimostrare quanto amiamo gli altri, per capire quanto riusciamo ad essere cattivi.

Dalla gioia e dal dolore, imparando dai nostri errori, crescendo dai nostri fallimenti, lottando per un futuro migliore, così che un giorno potremmo guardarci indietro e sapere che abbiamo speso bene il nostro tempo.


sabato 14 maggio 2011

SOPRAVVIVERE NON BASTA

Perché Facebook non basta; non può bastare. Perché attorno c'è troppo silenzio per non suonarci qualcosa. Perché le parole feriscono ma non uccidono. Perché non si sono ancora sbarazzati di noi.
Perché anche con uno strumento sdentato si può ancora avere qualcosa da dire. Perché non siamo ancora narcotizzati. Perché ci siamo. Perché vogliamo esserci. Perché vogliamo ritagliare uno spazio nel vuoto. Perché continuiamo a sapere tutto ed a dimenticarlo. Perché abbiamo paura di smettere di sognare. Perché abbiamo paura di sognare troppo. Perché siamo stanchi di questo sole quacchero che ci fissa svogliato e non ci colpisce. Perché non sappiamo più per chi suoni la campana. Perché non sappiamo se c'è ancora una campana che suona. Perché purtroppo siamo solo ragazzi. Perché per fortuna siamo ancora ragazzi. Perché ci sono cose che ci fanno schifo ma schifo non si può dire. Perché se vogliono pugnalarci non potranno farlo di spalle. Perché abbiamo bisogno di voi.
Chiunque di voi è libero di sparare il primo colpo. Ma mi raccomando... non sparate sul pianista; lui è li per caso. È li perché non ha dove andare. Perché non ha ancora voglia di andare via.